Post Office, Charles Bukowski

Henry Chinaski è cresciuto, vive con Betty e deve trovarsi un lavoro. Il lavoro lo trova all’amministrazione postale americana e il nostro Henry si ritroverà insieme ad un sacco pieno di lettere e posta a girare per le periferie di Los Angeles. Dopo tutte le delusioni deciderà di licenziarsi, per tornare poi per più di dieci anni e poi mollare definitivamente.
Siamo tornati con la seconda parte dell’autobiografia romanzata di Bukowski, Post Office, dove un Chinaski più maturo ci fa compagnia per circa 150 pagine, raccontandoci delle sue esilaranti e malinconiche esperienze, dell’ufficio, delle corse dei cavalli, delle donne e dell’alcol, fondamentali per Bukowski così come per Chinaski. La brutalità della narrazione è in perfetta sintonia con le situazioni da lui raccontate, la scurrilità, il carattere bruto del protagonista danno sempre l’effetto di avere a che fare con una persona molesta, ma in realtà, leggendo tra tutte quelle righe, riusciamo pure a volergli bene, a sentirlo amico, a compatirlo in alcuni momenti. E così siamo partecipi non solo delle sue giornate lavorative e delle sue scommesse all’ippodromo, ma anche delle sue esperienze con le sue donne, a partire da Betty, per passare alla texana matta Joyce e a Fey, che darà a Henry una figlia, Marina Louise (vero nome dell’unica figlia di Charles Bukowski).
Insomma, non vedo l’ora di poter continuare a leggere la semi-autobiografia con Factotum e per finire con Donne.

VOTO: 8

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